Sono un baby-boomer come Enzo, nato come lui nel secondo dopoguerra, io a Rimini, la città più bombardata d’Italia, lui a Napoli, che ebbe il privilegio di essere crudelmente bombardata da entrambe le parti in guerra, prima dagli Alleati, poi dai Tedeschi – già cacciati dalle “quattro giornate”. Lui nasce ai Quartieri (a Napoli, quando si dice “i Quartieri”, non usa specificare, i Quartieri sono sempre i Quartieri Spagnoli); io nel Borgo per antonomasia, l’unico dentro le mura malatestiane, il Borgo San Giuliano. Enzo, fino ai dieci anni, abitava nella parte superiore dei Quartieri, dove stradine e petrai si arrampicano verso il culmine della città, la Certosa e Castel Sant’Elmo. Ancora oggi, dopo che la parte bassa è stata in parte gentrificata, come direbbe Elsa Choosy Fornero, i miei amici napoletani mi consigliano di avere cautela nel varcare il confine invisibile con le parti più in alto, quelle dove abitava Enzo-bambino. Io invece abitavo nella parte “bene” del Borgo, cioè fuori dal Borgo, in Viale Tiberio: belle case a due/tre piani, con giardinetto e cantina, affacciate sui bei viali alberati di pini che, da metà anni Trenta, quando la podesteria di Rimini ridisegnò l’ingresso in città dall’Emilia, conducono al Ponte dei Mille e al nostro orgoglio, il Ponte di Tiberio. Io-bambino non osavo mettere piede nel Borgo vero e proprio, ’e Borg di anartic e di cumunesta, i cui proletari abitanti erano considerati, dalle formichine virtuose che eravamo noi delle zone residenziali, dei napoletani: “Come hanno due soldi se li spendono! Si i a’ du scud i fa’ baraca e i si magna tott!”. Doppio anatema: comunisti e napoletani, cioè volgari, violenti, malvestiti, sfaticati e sempre pronti a pazziare! Naturalmente, nessuna di noi formichine era stata a Napoli, né aveva mai avuto a che fare con napoletani veri. Io ne conoscevo due: il primo, amico e compagno già dalla prima elementare, si chiamava Rodolfo Muccioli e abitava in una casina rosa, di fianco alla chiesa parrocchiale di S. Giuliano Martire, la prima di una serpentina di case che, costeggiando via S. Giuliano (l’antica Emilia), a risalire verso il ponte di Tiberio, costituiva una ininterrotta cortina protettiva tra la chiesa e il cuore selvaggio del Borgo; il secondo, Stabile di cognome e di fatto, era un ragazzino mite, dai capelli neri, le lunghe gambe magre e la pelle olivastra, che abitava nelle case popolari costruite a metà anni Trenta all’inizio di viale Matteotti, allora XXVIII Ottobre, marcia su Roma: quella che, secondo l’opinione feroce e immemore oggi prevalente nei bar – proprio oggi, 28 ottobre 2012, anno XC –, bisognerebbe rifare. Comunque, a noi formiche risparmiatrici, toccò di andare in processione dai “napoletani” del Borgo, dalle cicale, quando, a metà degli anni Cinquanta, arrivò la televisione con Lascia o raddoppia: la platea, dal soggiorno dove troneggiava il monumentale apparecchio, proseguiva direttamente nella piazzetta, senza separazione tra interno ed esterno, privato e pubblico. Decenni dopo, nei primi anni Ottanta, a Napoli per la prima volta, ritrovai quella famigliarità nei “bassi” dei Quartieri, “quella specie di città nella città, di paese dentro il paese”, scrive Enzo Luoghi che dovevano apparirmi esotici mi erano invece stranamente famigliari, e non potevo darmene ragione, finché ricordai: ricordai che, in un tempo non così lontano, eravamo stati napoletani anche noi! Ritrovai questo miscuglio di arcaico e di “ultimo grido” nelle pagine di Enzo: “I santi e le madonne, gli scongiuri e i miracoli, gli scugnizzi e le gravidanze delle verginelle, i veleni e gli elisir, i segni del cielo, gli avvertimenti della camorra, le bancarelle davanti al basso, l’acqua nella pancia e la retina della spesa, le janare e i numeri del lotto, le fattucchiere e i munacielli, la lettura della sorte nei fondi di caffè o nel piombo fuso… e i nomi propri, Melella, Briggetella, Tore ’e Criscienzo, Giuvanne ’o Caprettaro, Toritore… Accanto ai quali si situano, come il telefono col pulsantino di fianco alla Madonna sotto la campana di vetro, tutti i marchingegni-simbolo del consumismo moderno; il whisky, il freezer, gli ormoni, l’inseminazione artificiale, le operazioni di plastica, l’aereo, gli annunci dei ‘cuori solitari’, il carcinoma, il fonex, gli handicappati, le assistenti sociali, il pozzo di Vermicino, lo stereo, gli spinelli, l’optalidon, la scala Mercalli, la dichiarazione dei redditi, il tic psicopatologico, la dipendenza alcolica… e i nomi propri, Blanche, Chantal, Betty, Desiderio, Cléo, Shangai Lil…” Così Fabrizia Ramondino, Teatro e Poesia in Enzo Moscato, introduzione a Enzo Moscato, L’angelico bestiario (Ubulibri 1991). Quante cose, vecchie e nuove, “di cattivo gusto”! Il fatto è che Napoli è il contravveleno, il rimedio al “buon gusto”. Il fatto è che a Napoli ti devi arrendere, una resa d’amore, non un’assoluzione erga omnes… contro Napoli non ne puoi, perché Napoli ti eccede, è di più assai! Scendi a Napoli con il tuo “buon gusto”, la tua “estetica”, la tua “eleganza” e… dopo un po’ non sai che fartene! Come si respira bene, dopo che ti sei arreso, quando guardi i mucchi di macerie o le infinite “incompiute” e per prima cosa non le giudichi, ma continui a guardarle, come Thomas Jones, pittore gallese di vedute e paesaggi, imparò a guardare e dipingere non più le rovine classiche del Grand Tour ma una piccola fenestella su un muro spoglio e bellissimo. Questo l’ho imparato, prima ancora di Napoli, nella “cintura degradata” – così scrivono i giornalisti – di Somma Vesuviana, di Ottaviano, di Sant’Anastasìa; l’ho imparato grazie al mio terzo napoletano, Pasquale D’Alessio, che da Somma se n’è venuto a Riccione a lavorare e a scrivere.
“Antico, e tuttavia senza domani. Che possiede soltanto un eterno, insopportabile presente”. Ho appena finito di leggere, con grande soddisfazione di testa e di cuore, Gli anni piccoli, per il quale rubo, da una nota odierna di Alias sui saggi critici di G.W. Sebald, scrittore apolide per scelta, queste parole: “Questa narrazione, per quanto abbia una voce e una cadenza straordinariamente riconoscibili, muove da una intenzione esplicitamente antinarrativa. Nel senso che si sottrae alle regole della finzione, alle logiche costruttive coese e al gesto egemone di mettere in prospettiva il reale”. Così, anche Gli anni piccoli procede per frammenti dai quali si sprofonda, fino a un Olocausto di bambini – o si ascende – ma non si scappa: l’ultima parola di Enzo nel libro è Ccà, qui: il “vivere qui”, a Napoli o altrove, “che oggi […] siamo chiamati energicamente ad affrontare, e a cercar di tramutare in urlo fortissimo di vita – di rispetto per la vita – di ferma custodia della memoria”.
Fabio Bruschi
Viserba di Rimini, 28 ottobre 2012
Nelle immagini: quattro vedute di Napoli dipite dal pittore gallese Thomas Jones
Enzo Moscato e Riccione: attore, autore e regista, Moscato è, tra i capofila della nuova drammaturgia napoletana, il maggiore interprete di un nuovo teatro di poesia. Pièce noire, vincitore del Premio Riccione 1985, il primo sotto il segno di Franco Quadri, gli diede la notorietà nazionale. Il “Riccione” al suo testo, il primo in lingua napoletana – o tout court in dialetto – a essere premiato, inaugurò il riconoscimento di quella lingua nuova, arcaica e contemporanea, contaminata da dialetti non solo meridionali, che oggi nutre alcuni dei filoni più vivi del teatro italiano. Scrive Ramondino: “Sorprende la possibilità, proprio in questa età dei media, di scrivere in napoletano testi che hanno fatto propria anche la lezione dei moderni e dai quali sono banditi ogni passatismo vernacolare, piccolo-borghese e plebeo, ogni tendenza idilliaca o sentimentale, truculenta o populista”. In questo senso, l’affermazione di Moscato a Riccione è storica: dopo di lui le lingue teatrali miste al dialetto segnano profondamente i decenni successivi del Premio e del teatro italiano, dall’amatissimo Lello Baldini al giovane flegreo Mimmo Borrelli, che riconosce in Moscato il maestro di elezione. Enzo Moscato è ritornato più volte a Riccione, dove, dopo il successo, presentò Occhi gettati, seguito dalla partecipazione al TTV e dal lavoro in giuria, fino all’occasione odierna. Impossibile citare qui tutte le opere (ma va citato lo storico Rasoi, spettacolo-manifesto di Teatri Uniti dei primi anni Novanta, regia teatrale e cinematografica di Mario Martone), tutti i premi e le partecipazioni a stagioni, festival e rassegne: si fa un’eccezione per Santarcangelo, quando il festival, diretto da Leo de Berardinis, gli commissionò quattro pezzi, tra il 1994 e il 1997, inaugurati dal fortissimo Mal-d’-Hamlè (in Quadrilogia di Santarcangelo, Ubulibri 1999). Ancora Ramondino, non per de-finire, ma per ri-velare: “Dietro le vesti dell’attore, drammaturgo e commediografo Enzo Moscato si nasconde un nudo e autentico poeta”.
Fabio Bruschi, “giardiniere e progettista culturale”, nato a Viserbella nel 1949, vive e lavora a Viserba; è stato direttore dell’Associazione Riccione Teatro, dopo averne definito il profilo, dal 1985 al 2010.